KODOKUSHI
(“kodokushi”, letteralmente: “morte solitaria”.
Ho voluto, con questo monologo, esplorare, quasi dall’interno,
l’isolamento, la perdita, il vaneggiamento, i ricordi , il dolore che
accompagnano la protagonista di una “morte solitaria” sino alla fine, sua e
della sua bambina.
È certamente un atto di accusa alla società che emargina; alla
comunità, incapace, nella sua frenesia, ad accorgersi del dolore o, semplicemente, di una
assenza; come se, sul palcoscenico, venisse a mancare una banale comparsa.)
Sono uscita fuori dall’uscio.
Sono arrivata, furtiva, al
secondo piano.
Ho sperato di sentire
un rumore. Spiando l’ascensore.
Ma il pulsante è
rimasto un cerchio inutile, senza tracce.
Ho atteso. Ho
sperato in una rincasata improvvisa: per un malore, un permesso speciale in
ufficio, un incontro d’amore clandestino.
Ma non è successo.
Sempre, silenzio. È così.
Solo tempo fa
sentii una risata cristallina, lontana. E sorrisi, fiduciosa. Mi ricordai i
giochi nel cortile di quando ero bambina.
Lo so, sono
rimasta una malata speranzosa. Con l’attesa di tornare presto all’aria e alle
amiche per giocare gli inutili giochi di fate, in libertà vigilata.
Una volta
immaginai che la mia vicina fosse quel viso simpatico che avevo intravisto
quando ero scesa a gettare dei funghi che credevo velenosi. Eh, sì! Il nostro
gatto non li aveva voluto mangiare.
Io avevo pensato
che dandogli qualcosa si sarebbe potuto alimentare un altro soffio di vita. Un
soffio cerimonioso di un dio che protegge, almeno, le piccole tigri di casa.
Elsi, oggi, è
silenziosa. Si è abbandonata. Ma mi sorride e così facciamo un gioco. Quello di
sempre: le concedo di cercare, tra le pieghe del mio busto, qualcosa di dolce.
Una distrazione. L’ultimo dolcetto l’ha succhiato qualche giorno fa.
Siamo al buio. Dopo essere state per giorni con i
riflessi dei giorni morenti e nascenti. Nascenti e morenti.
Ogni tanto mi
metto ferma, immobile, facendo finta di essere al sicuro sotto tre metri di
terra.
I suoni della
terra sono gli stessi del sopra: fruscii, rantoli , sussurri , sospiri di
esseri che si uniscono o subiscono
violazioni.
Nel buio ci
guardiamo, alle ore alterne dei neon.
Nel buio la sento
respirare.
Debbo nutrirla.
Non posso nutrirla con il mio futuro incerto, emaciato.
Cosa credete? La
mia mente è ancora libera. Le vedete? Le vedete, voi, le montagne innevate. Che
caldo tepore di fumi calcarei!
Mi vedete lassù?
Tra dolcezze immortali e una fiducia sconsiderata nel tempo mentre morde la
giovinezza.
Dovrei spazzare;
ma mi chiedo dove il gatto abbia potuto mettere la scopa. Sono diventata
apatica nelle cose pratiche, come pulire la casa.
Dov’è la scopa?
Dove l’ha messa? Se fossi un gatto potrei usarla per solleticarmi la schiena,
pettinarmi il pelo, circumnavigarla, giocarci con la zampa. Fingendo che il
movimento elettrizzi la disposizione a cacciare. Come vuole la natura.
Già, la mia
natura. Mi sembra qualcosa che ho perso. Non ne ho più memoria; una amnesia
esistenziale.
Solo fili messi
alla rinfusa. Forse non li so più organizzare. O, forse, cerco di nascondere la
mia natura, fatta di grano tenero. Basta un po’ d’acqua e un pizzico di sale,
mani che accarezzano teneramente fino a far sciogliere i grumi dell’anima.
Ho pensieri che
stano come in una foresta misterica.
Un frutto acerbo.
La gioia possibile di essere accolta di nuovo. In tante case. Tra tanti bimbi.
Di tutti. Mentre le mamme delle mamme intonano canti d’amore alla vita e li
accarezzano e nutrono il futuro.
Sono andata via.
Volevo un respiro libero, ma anche tante luci, colori, sapori, odori: una
fantasia collettiva di bellezze sconosciute. Esploratrice di orgasmi giovani e
nuovi. Una progettazione di vita buona, di una casa, di amori.
Quando eravamo in
due, in questa casa, facevamo turni. Eravamo sentinelle delle nostre vite. Un
lavoro pieno; poi a metà. Poi, poi più niente. Come colori che scivolano via; un
poco, dopo ogni lavaggio. È successo e ricordo, ancora, il colore brillante
rosso fuoco, che tanto mi piaceva, diventare
come una patina bianca. Con memorie di fantasie rosse come sangue. Asciugato in
lacrime salate.
La sera si usciva
a turno. Poi, ti ho perso di vista. Forse avevi un amore nuovo, un lavoro
lontano, un’altra dimensione. A volte, mi chiamavi. Nel tempo, hai dimenticato.
O hai creduto che io avessi dimenticato.
L’affetto ci
legava o tutto era effimero?
È stato l’inizio.
Sono scesa di
soppiatto fino alla strada. Nessuno mi ha fatto un cenno di saluto.
Ho pensato che non
mi avessero riconosciuta. Non avevo rossetto. Ero spettinata. Senza i soliti
schermi di giovane che prende a morsi la vita.
Mi ero disarmata
pensando alle facili vittorie di un polpaccio su un tacco vertiginoso.
Devi essere
allenata alla rappresentazione, sempre pronta.
Quando sono
tornata a casa? Quando è stata l’ultima volta?
Quando non eri
ancora nata, piccola mia, ti ho portata da una nonna che non avresti mai
conosciuto.
Non ebbi il
coraggio di parlarle del frutto di un amore fugace. Promettevo troppo a me
stessa e avevo già vestito i sensi di una notte ubriaca, di amore eterno.
Vincente! Era
questo il prezzo e non importava che le mie scelte fossero condivisibili dalla
società che nega o dalle donne che fingono.
Tornai e parlai
con te. Mia amica o coinquilina?
Oggi non so e non
ricordo tra noi confidenze al di là degli amori. I tuoi, vivaci e invadenti.
ti dissi di me tra
i piatti da lavare e una persistente nausea di cui non trovavo motivo.
“Sono incinta e lo
sai solo tu!”. Il piatto che maneggiavi rimase sospeso a mezz’aria. “Ora sono
in ritardo” dicesti “Quando torno ne parliamo. Sei in tempo per risolvere, mi
pare!”
Elsi, quanti tormenti!
Ancora oggi non
riesco a dissociare le immagini di te fiduciosa di crescermi dentro e di
qualcuno che ti fa a pezzi, per sloggiarti dal caldo del mio ventre.
Queste sono le
nostre libertà! I nostri diritti. Noi donne li pretendiamo e molte lottano per
questo. Ma quante sanno che questa libertà diventa barbarie? Io, lo sapevo. Sì,
lo sapevo. Come sapevo di tanti che ne fanno commerci clandestini.
Quando sei andata
via ho cercato di consolarmi concentrandomi su quello che dovevo fare della mia
vita. Della vita che mi cresceva dentro.
Ne sentivo il
respiro lieve e fiducioso. Mi preparavo a cullarla tra le braccia e a passare
la notte a vegliarne il sonno.
Intenerivo il
tempo. Il nostro tempo di giochi. Di musica e colori; per farti sognare. Mi
chiedevo cosa sognassero i bimbi. Ninna nanna al profumo di talco?
La passione? E
l’amore è un dramma? Un dramma celebrato, parlato, musicato, urlato,
guerreggiato. A volte ucciso tra pulsioni insostenibili e sangue che scorre tra le vene impazzite di orgogli,
di rigori, di possesso. Come se fosse possibile possedere qualcosa che non si
paga, che non obbliga a ripieghi, nella società dei consumi divoranti.
Il futuro. La
chimica. La chimica dei sentimenti. Inoculati agli sposi trepidanti davanti
all’altare: Si sceglierà la pillola - la si potrà chiamare “talamol”, nei vari
tipi normale, forte, fortissimo - che si vorrà usare. Con tanto di posologia
per gli effetti “amore a tempo”. Un amore assicurato contro l’usura. Una
programmazione di passione certificata e garantita. Facendo attenzione alla
scadenza del prodotto ed agli effetti collaterali.
Oppure,
“sposital”. Un logo che rende l’idea del prodotto. Efficace! Mia nonna,
fiduciosa, ha preso “epatos” per anni. Pensava che fosse un prodotto efficace a
curare una tosse persistente. Quella tosse dovuta alle sue selvagge scorribande
con ogni tempesta. Sprezzante dei pericoli dei bombardamenti e indomita a
quello che andava fatto a ogni costo. Anche a costo della vita. Un decalogo
segreto di sopravvivenza.
Un’altra giornata.
Ho finto di telefonare.
Quando sento
parlare di solidarietà, di vicinanza, di empatia, di altruismo mi si arriccia
la pelle. Allora, divento vecchia all’istante come una lucertola preistorica.
Un dolore millenario mi esplode dentro. Penso di non aver nulla da ribattere.
Solo silenzio. O ricordi
di una bambina che si trasformava in fata: “Chiudi gli occhi e vedrai che una
fata vestita di stracci profumati ti trasforma la casa in una reggia fatata.”
I miei dieci
minuti di eternità! Di fiori di carta, di
lucido di cera, di orpelli di frutta, di cappello alla “mata hari”:
trasformo la tesa, ora incurvata ora pizzicottata, ora bicolore con nastri e
strisce e fiocco laterale. Voilà! Ogni colore per la scena. Anche il nero della
cenere, il viola della caramella o il rosso coccinella di quelle candite alle
violette o radicchio -.Poi, il bianco della farina.
La fata! Ero io a
crederci. Tu mi guardavi perplessa e continuavi i capricci della più piccola.
Così io mi sentivo una fata fallita. Senza poteri magici e senza bacchetta da
roteare nel mondo surreale.
Giochi e, poi,
ancora giochi.
Ah! Mi chiedo
ancora se fosse realtà o fantasia la figura che si stagliò nel vano della
porta. Era tutta bianca, quasi argentata, con un turbante come una impalcatura.
Pensasti che mi fossi travestita alla moda dell’ultima fata. Poi ti accorgesti
che ero lì. Nel letto, vicino a te a guardare delle figurine. Non ricordo di
chi o di che.
Non indagammo. Gli
interrogativi potevano essere pericolosi. Eravamo piccole, ma anche sagge.
Forse troppo allibite per riparlarne tra noi. Forse, da allora, pesi le parole con
un bilancino incorporato. Parole il più delle volte acide, come andate a male.
Per difenderti, forse. Hai lasciato da qualche parte i sogni di libertà. Così
hai negato e selezionato. Hai fatto confetture della vita. Come una brava
massaia con il piglio di un capitano di industria.
Oh! Vorrei con me
qui, ora, quella signora segreta. Le chiederei di fare una magia per te,
piccola mia!
Le chiederei di
fare questa stanza grande come un oceano, fresca come una limonata, dolce come
il miele di tiglio; con fruscii lontani di cascate, con la luce arancio e perla
del più bello dei tramonti. Con una tavola di dolci e cioccolata e con un
melograno da spolpare, acre con i suoi chicchi di perle rosate e trasparenti.
Le chiederei di
farti tornare colorata e gioiosa e di accendere il tuo sorriso. Sono giorni che
sei pallida come panna smontata.
Il gatto girava per
casa. Cercava refrigerio. Saltava dappertutto. Ha esplorato ogni angolo; poi,
si è arreso.
Una volta - ma
quanto tempo è passato? -si intrufolò dietro un mobiletto. Sentii un rumore
metallico: una scatoletta magica che rotolava e rotolava. Mi trascinai; anche
se temevo una delusione. Poteva essere vuota come un sogno all’alba o piena
come un incubo che finalmente finisce con un brusco liberatorio risveglio.
L’aveva fatta
rotolare fino ai miei piedi, come un trofeo, la piccola tigre che si era
tagliata le unghie liberamente per non fuggire.
Eppure l’avevo
invitato ad andarsene. Specie quando ruggiva segretamente per pene di un amore
avventuroso immaginato dalle sue viscere. Una necessità esistenziale.
Rifiutava e si
rannicchiava ai piedi della piccola Elsi. Il ruggito diventava un tuono ormai
lontano di una tempesta scampata.
Era una scatoletta
di carne. Un sogno. Ma l’attenzione deviava la strada come una vecchia carta
stradale. In disuso. L’etichetta indicava che era scaduta da un anno.
Febbrilmente cercavo di ricordare dove,
con chi, quando l’avessi comprata. Invece mi addormentai e sognai una
luna con un volto umano.
Si trasforma in
fata e dopo si cambia in strega sdentata che mi guarda per polverizzarmi.
Diventa una belva con denti aguzzi per sgranocchiarmi. Si trasforma in una
mostruosa creatura che ha già avuto la meglio su di me: mi sta sbrindellando le
viscere.
Ricordo che mi
svegliai per il dolore lancinante e per l’odore dolce-caldo e nauseante del
sangue.
Ma non è un
incubo, ora. Ho davvero dolori pulsanti al ventre.
Come una bestia
impazzita che mi si muove dentro, incapace di uscire
Sonnecchio in una
specie di limbo. Elsi è tra le mie braccia, ma non mi guarda. Sembra una
bambola di pezza.
Il tempo si è
fermato. Mi sembra compatto, solido come una montagna da scalare. A mani nude,
per andare dall’altra parte.
Sono soltanto due
settimane di digiuno penitente? O isolamento? O due vite? O immaginazione di
noi in un luogo sconosciuto e ostile?
Cerco il dna. Le
voci del sangue dove sono?
Ma, oggi servono
solo per cercare tracce sbiadite di assassini. Di morti ormai celebrate;
"Piccola, sei pallida.
Vieni! Andiamo alla finestra.
Guarda! Guarda!
Guarda!
Ci sono gli
aquiloni. Vengono dal parco. Domani ti ci porto. Vuoi?
Non piangere.
Aspetta. Vediamo se c’è ancora latte condensato nella scatola. Ricordi come ti
è piaciuto?"
Oh, Elsi! La
scatola è vuota- Perdonami! Mi è venuto meno il coraggio. Solo quella volta.
Solo quella volta.
Tu mi attendevi discosta. Da
vera donnina. La nascosi sotto le pieghe del cappotto. Ma non sono una ladra.
Mi videro.
Un uomo si
avvicinò. Mi disse: “O la paga o la posa!”. Subito!
Io mi misi a
tremare. Trovai solo la forza di parlare di te: “La bambina ha fame!”. Lui ebbe
un attimo di esitazione. Lanciò uno sguardo. Ti vide. Ah! Com’era bella la mia
Elsi; così seria, così composta. Si volse a me e senza un sorriso mi disse: “Se
ne vada, ma non si faccia più vedere! La prossima volta chiamo la polizia”.
Corsi da te. Scappammo via.
Come fare, Elsi?
Non so rubare. Non ho il coraggio di rubare.
Piccola mia non ho
saputo chiedere aiuto o non sono stata veramente ascoltata.
Ricordi la telefonata
di quel ragazzo? Aveva sbagliato numero.
Mi venne, allora,
l’idea di chiamare a caso un numero e poi, un altro e poi, un altro; in una
frenesia febbrile di ascoltare una voce che dicesse: “Dove sei? Vengo subito!”
comprendendo la urgenza di ricomporre fili spezzati. Con pazienza, affetto,
amore.
Al primo che
chiamai chiesi a bruciapelo: “Ha una figlia?”. Mi sbattè il telefono.
Al secondo chiesi
di non riattaccare perchè avevo bisogno di parlare con qualcuno. Un momento, un
secondo, un attimo. “Mi scusi, non ho tempo” mi rispose, riattaccando.
Il terzo mi parlò,
con una voce suadente, vellutata: “Mi dica signora, è sola? Beh, a volte
anch’io mi sento solo. Con una moglie come la mia è quasi naturale, ma basta
poco per consolarsi. Che dice, sua figlia non mangia? La faccia vedere da un
medico; può essere anoressica. Le ragazzine vorrebbero taglia zero, come
bevanda zero, come lavoro zero. È una bambina? Allora le consiglio un pediatra.
Come? Cosa dice: sta morendo? Se è uno scherzo ha sbagliato numero! Non posso
aiutarla e non mi richiami!" Chiuse il telefono e mi accorsi che il suono
“tu tu tu tu tu” mi faceva compagnia.
Era un coro. “tu,
tu, tu” dicono i grattacieli, le case, le strade, le piazze; “tu, tu, tu” le
edicole chiuse, i portoni chiusi , i tetti. Mi chiesi come facessero a parlare
di me, per me. Fu una scoperta clamorosa. rivelata solo a me. Un segreto,
segreto. “Che segreto!” mi ripeto mentre ho solo il desiderio di cadere in un
sonno profondo, come in un pozzo privo di acqua.
Ancora al telefono.
Ancora un numero a caso.
Un lui, con una
voce anonima, sentendomi bisbigliare mi disse: “Ti senti sola, piccola? Io so
quello di cui hai bisogno!”. Era un imbecille con il grasso tra le gambe.
Mi arresi alla
fine quando una donna mi apostrofò: ”So chi sei. Puttana! Che tu sia maledetta”
e riagganciò violentemente.
Donne! Donne! Ma
da quando ci siamo perse! perché abbiamo
perso di vista la nostra sensibilità, la nostra abnegazione e, finanche, la
nostra integrità? La nostra comunità è disgregata all’interno. Donne contro
donne. Non interessa alla società che siamo portatrici sane dell’umanità. La
società ci pretende competitive, aggressive, ciniche, arriviste. Capaci, secondo
la percezione maschile, di rubare il marito o l’amante o la condizione sociale
o l’occupazione o, soltanto, un attimo di interesse umano. Un incubo dal quale
non si esce. Un incubo nel quale le donne si sono perse.
Quando ho avuto la
certezza della tua vita dentro di me feci subito la scelta. Nessuno ha scelto
noi. Nessuno si ricorda di noi. Nessuno, neanche per una frazione di secondo,
si chiede: “Dove sono? Cosa fanno?”. Mi sembra che il mondo sia percepibile attraverso
false luminescenze. Un po’ come guardare una lampadina da dove si propaga una
girandola di sottili schegge di luce.
Oh! Ricordo
vagamente un romanzo che mi era piaciuto tanto. Non so perché proprio quello.
Un uomo affascinante e una donna bellissima si incontrano. Sono, entrambi,
ospiti di amici comuni. Lo scenario è la campagna inglese lussureggiante. Forse
un castello o, forse, più modestamente, una dipendenza. Cavalli, ruscelli,
passeggiate nel verde smeraldo degli alberi secolari. Lui, follemente
innamorato, da subito. Lei, cauta, forse indifferente. Lui è un avvocato dedito
alle cause ottuse per gli altri, ma intense di valori morali. Lei si sottrae.
Lui la insegue. I capricci del caso si intrecciano sino all’epilogo quando lei, dedicatasi ad un ricovero per
diseredati, viene aggredita e resa morente. Lui la salva. L’assiste. La
protegge. Lei, commossa, alla fine, si concede all’amore .
Le donne sanno
anche sognare e cercare di scrivere queste storie. Come fare un buon dolce dove
la sapienza sta nel dosaggio degli ingredienti e nella preparazione raffinata
della glassa. Rose e violette per decorazione.
Non so. Potrebbe
essere il desiderio insoddisfatto di avere padri e madri amorevoli per i quali
sei l’essere speciale e unico della loro esistenza, il loro stesso respiro.
Gli odori che
avverto sono disgustosi di umido e muffa, sudori, escrementi secrezioni. Vedo
molecole maleodoranti che volano liberamente. Sì! Sono quelle che il mondo
civile nasconde ai suoi stessi sensi.
Che occulta con
formule chimiche, con bagni profumati, con incensi. Che nascondono la
putrefazione già in atto, anche nelle carni vive .
Ho solo voglia di
dormire. Sono estenuata. Ecco: succosi frutti che annuso e divoro fino a
strofinarmici il viso. Polpe rosse, verdi, gialle. Mi manca il respiro! C’è
odore dolce, miele bianco e muschio.
Da bambini
attraversavamo un viottolo, un sentiero infuocato, per accedere alla spiaggia.
Ah! L’odore del
mare e dei fiori eterni di elicriso.
Debbo andare dalla
mia bambina. Dorme? Voglio abbracciarla. Voglio accarezzarla. Voglio
consolarla. Voglio portarla in un luogo sicuro.
Insieme. Strette
strette. Fa freddo.
“Elsi, è tornata
la fata! Guarda!"
Oh! Dal lago
argentato escono vapori leggeri. L’acqua è fresca e calda insieme. È l’acqua
che scorre nelle viscere del mondo. Mescolata e senza firme.
“Ci possiamo
immergere. Tienimi la mano.”
Scende per la gola
un balsamo odoroso. Profumi di violette e rose; di ciclamini e anice stellato;
di mandorle e cedro di verbena; di iris e fiori d’arancio.
Alberi miti e
soleggiati ci offrono ciliegie e mandarini. Pomi dorati e colorati.
Ecco,
ti sei addormentata!
Piccina!
Piccina! Ti ho spento i desideri. Come a
un palco le luci. Ora, siamo tra il visto e l’immaginato. Ora, siamo alla sponda. Da dove non si torna. Siamo
alla tregua tra noi e il mondo. Siamo alla porta del possibile infinito.
Ti
voglio portare per mano. Se non nel respiro, almeno nella immobile quiete uterina. Dove il non ancora profuma di futuro.
Vedete? Elsi mi
sorride. È fiera di me. È felice del bosco incantato dove l’ho condotta. I suoi
occhi hanno nuovamente il colore della vita.
Alla fata della
mia infanzia vorrei fare una domanda, l’ultima possibile: ”Perché in questo
luogo non ci sono uomini?”.
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